24 aprile 2015


È stata una pregevole opera collettiva dedicata a Rita Thalmann a darci modo di scoprire la questione della partecipazione delle donne all'attuazione del genocidio. Nel suo articolo introduttivo intitolato Femmes, féminismes, nazisme, ou: on ne nait pas innocent(e), on le devient ["Donne, femminismi, nazismo, ovvero: innocenti non si nasce, lo si diventa"], Liliane Kandel fa notare che, per quasi quarant'anni, le femministe e le storiche tedesche non si sono mai cimentate direttamente su questo tema. Sottolinea "l'innegabile difficoltà, per le storiche, le ricercatrici e le militanti femministe di affrontare quei problemi [...]. O, più precisamente, di affrontarli a quel titolo". Tra queste, tuttavia, una ventina hanno avuto il coraggio di porre le scomode domande circa "il grado di adesione e le modalità di partecipazione attiva o passiva, esplicita od occulta, sporadica o continuativa", delle complici del regime, invece di attenersi soltanto all'azione delle partigiane o alle vittime femminili del nazismo. In breve, hanno avuto il coraggio di entrare nelle "zone grigie" del femminismo.
In esse troviamo la messa in discussione dell'idea dominante "della non implicazione, della non compromissione delle donne nell'impresa nazista"; il modo in cui le femministe ariane rinnegarono la loro "sorellanza" con le amiche e militanti ebree; !e modalità di partecipazione, attiva e cosciente, delle donne ai diversi aspetti del sistema di espropriazione, spoliazione e delazione degli ebrei in Germania; e infine il caso delle donne direttamente e apertamente impegnate nel processo ideologico e materiale della persecuzione: le donne delle SS, le intellettuali e universitarie, come la biologa Agnes Bluhm, che appoggiava senza titubanza il regime hitleriano. In altre parole, "gli zelanti esecutori di Hitler" che contano anche tra loro un gran numero di donne. Insomma questo libro mette fine al mito dell'innocenza femminile così sintetizzato da Claudia Koonz: "Gli uomini erano nazisti e le donne innocenti".
Nicole Gabriel, che ha lavorato sulle delatrici a partire dal libro di Helga Schubert, Judasfrauen, ne propone un'interessante classificazione per tipi. Distingue, cioè, fra quelle che hanno denunciato "per civismo", per lealtà nei confronti del regime, quelle che hanno agito "per mettere ordine", per regolare a proprio vantaggio dei conflitti privati, e infine quelle che l'hanno fatto per seguire una passione o un istinto, ricercando nel fatto di nuocere ad altri un appagamento di carattere libidico. Su quest'ultima categoria vale la pena di soffermarsi, in quanto mette in luce una motivazione che in genere si vuol credere estranea alle donne: stiamo parlando del sadismo.
[...]
In uno studio sulle donne SS, Gudrun Schwarz si domanda quale parte abbiano svolto nel processo di persecuzione e sterminio, a seconda che fossero mogli, figlie o sorelle di soldati delle SS, membri del corpo femminile delle SS, o sorveglianti di campo. Di queste ultime Schwarz ha trovato traccia negli archivi dì Coblenza. Nel 1945, il loro numero ammontava a 3.817, cioè il 10 percento della forza totale. Queste sorveglianti svolgevano servizio sia nei campi di concentramento femminili, sia nei campi di sterminio come Auschwitz-Birkenau e Lublin-Maidanek. I campi erano sempre diretti da un uomo SS, ma le sorveglianti esercitavano un'autorità diretta sulle detenute. Responsabili delle angherie e delle torture quotidiane nei confronti delle prigioniere, esse avevano il diritto, in servizio, di portare un'arma da fuoco, ed erano l'incarnazione della violenza. Secondo quanto ammesso nei processi da loro stesse, partecipavano alle operazioni di selezione. Ad Auschwitz o a Maidanek, tutte queste donne, temute per la loro brutalità e il loro zelo, "hanno collaborato direttamente a un sistema di oppressione e di morte [...] e contribuito alla riuscita del processo di sterminio". Una superstite del campo di concentramento di Gross-Rosen, chiamata a deporre come testimone, ha dichiarato: A picchiarci erano le civili tedesche. Le sorveglianti SS non avevano niente in contrario. Potevano picchiarci e torturarci finché volevano".
Gudrun Schwarz conclude laconicamente che, malgrado l'esistenza di una messe di documenti, le donne SS non sono mai state oggetto di ricerca specifica, "né nell'ambito degli studi sulle donne, né in quello delle ricerche sulle SS".
Fonte: Elisabeth Badinter - "La strada degli errori. Il pensiero femminista al bivio".

Nell’autunno del 1942 Elisabeth Willhaus, moglie del comandante del campo di concentramento polacco di Janowska, era solita sparare ai detenuti ebrei dal balcone della sua casa. Accanto, aveva la figlia di sei anni.
Lo scandalo di disumanità e di crudeltà del nazismo che negli ultimi anni ho potuto conoscere da vicino, incontrando diversi sopravvissuti ai campi di sterminio, fu opera anche delle donne.
Lo riafferma con nuovi documenti e testimonianze lo storico tedesco Thomas Kühne nel libro Il male dentro. La comunità di Hitler: psicologia del genocidio e orgoglio nazionale (Edizioni dell’Altana, €18, p.288). (…)
Da parte sua Kühne parte dal presupposto che la maggior parte dei cittadini del Reich – che fossero aguzzini o spettatori, per lui altrettanto complici – «aderì alla costruzione di una nazione e di un’organizzazione che rese possibile l’Olocausto».
In questo stesso scenario colloca le donne. Non solo quelle come Ilse Koch che ebbero un ruolo attivo e feroce di carnefici, ma anche chi fu parte del sistema macchiandosi di delazione, lavorando da telefonista o stenografa delle SS e della Gestapo e, ancor prima della Soluzione finale, entrando nella fitta rete di organizzazioni del nazismo (BDM-Bund Deutscher Mädchen, RAD-Reicharbeitadienst, NS-Frauenschaft…) che addestrava le ragazze al cameratismo e alla Volksgemeinschaft (la comunità del popolo).
(…) Come poterono queste stesse donne arrivare a denunciare senza pietà l’ebreo vicino di casa, a diventare guardie dei campi di concentramento (il 10% furono di sesso femminile, impiegate soprattutto a Ravensbrük e Auschwitz) oppure semplicemente a tacere di fronte alle notizie che arrivavano sui forni crematori e le camere a gas?
Sulla stessa linea, Brunello Mantelli:
La situazione era molto complicata. Una volta entrati nell’organizzazione nazista era difficilissimo e rischioso uscirne. E di eroi non ce ne sono molti», spiega. Andando invece ancora oltre, a quel livello oltraggioso del male per il male, del crimine privo di compassione, commesso non solo per mano maschile ma anche femminile da una, e molte, streghe di Buchenwald, nota: «Non cadiamo nella trappola della distinzione. Mai come in questo caso i fatti dimostrano che tra gli uomini e le donne non c’è differenza.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/quel-tragico-binomio-tra-nazismo-ed-emancipazione/

Le donne SS nei lager nazisti

SS. Sigla per definire le “Schutz-Staffeln”, letteralmente “scaglioni di difesa”. Questo era il nome dell’organizzazione militare del partito Nazionalsocialista tedesco, con compiti di polizia fino al 1945. Le SS erano dunque quel corpo militare che si occupava della gestione dei campi di concentramento; facevano parte di questo corpo di comando anche le donne.

Ma perché anche le donne? 

Nella Germania del partito nazista molte erano le donne vicine a questa formazione politica, tanto che all’interno della “casa bruna”, il quartier generale del partito a Monaco, alcune di loro iniziarono a lanciare iniziative, stendere programmi e a crearsi un pensiero proprio sul nazismo. Tutto questo perché inizialmente erano poco considerate e lo spazio riservato al miglioramento delle condizioni femminili nella politica di Hitler era piuttosto limitato. Le donne, in particolare le mogli dei gerarchi nazisti, erano considerate alla stregua di oggetti da mettere in mostra nelle uscite pubbliche.

In generale, dunque, il ruolo della donna nella Germania di Hitler era davvero marginale e il suo compito era quello di occuparsi della casa e di generare e crescere figli forti; non le era riservato alcun ruolo all’interno della società.

Nel 1923 Hitler finì in carcere. Anni dopo avrebbe ammesso che molto era stato fatto proprio dalle donne per tenere unito il movimento. “Senza l’aiuto delle donne” – disse – “nel 1924, quando uscii di prigione, non avrei potuto riorganizzare il partito”.

Il nazismo si accorse però piuttosto tardi che per portare avanti il progetto di salvaguardia della razza ariana erano necessarie ragazze giovani e “idonee”, quindi tedesche, che generassero molti figli e che li facessero partecipare alle attività della Gioventù Hitleriana. Fu sotto questo aspetto che il ruolo della donna venne rivalutato; pian piano le organizzazioni femminili crebbero anche all’interno del partito. Nacquero così festival folkloristici, programmi radiofonici, corsi di preparazione alla maternità, iniziative, insomma, prettamente riservate ad un pubblico femminile.

L’attenzione improvvisa per le donne non diminuì però la misoginia degli uomini. Pur essendo esse una componente fondamentale della “fascia dei dominatori”, vivevano in ogni caso una condizione di sottomissione sessuale. L’umiliazione da parte del cosiddetto “sesso forte” non impediva loro di andare comunque orgogliose della propria superiorità nei confronti di Ebrei, Slavi, Zingari di ambo i sessi. Molto probabilmente fu proprio questa condizione di inferiorità inaccettata ed inaccettabile che spinse numerosissime donne ad entrare a far parte delle SS; entrando a far parte di un corpo militare esse avrebbero dovuto seguire un vero addestramento per imparare a gestire i campi nel modo più utile e “proficuo”. Sfruttando la loro posizione, esse erano in grado di esercitare un potere, qualsiasi potere su individui considerati inferiori, riscattando così, nei campi, la marginalità del loro ruolo nella società.

Molte sono le testimonianze che sottolineano come molto spesso le aguzzine fossero assai più crudeli e intransigenti degli uomini; a volte i prigionieri e le prigioniere tentavano di guadagnarsi qualche piccolo favore (un pezzo di pane, una coperta) facendo leva sui sentimenti di queste, ricevendo in cambio soltanto odio e crudeltà.

A volte le aguzzine sceglievano tra le prigioniere coloro che erano più belle e sane e le costringevano a prostituirsi nelle “baracche a luci rosse”, bordelli presenti all’interno dei campi riservati ai militari e ad alcuni internati che avevano per qualche motivo collaborato con le SS. Le prigioniere provenivano perlopiù dalla Germania nord-occidentale, in particolare dal campo di Ravensbrück, campo femminile gestito quasi esclusivamente da donne.

Ecco che le aguzzine non solo non aiutavano le proprie vittime, ma si rivalevano su di loro assai crudelmente e molto spesso facevano di esse delle vere e proprie schiave del sesso. Le donne venivano fatte scegliere dalle kapò in base alla bellezza, all’età e alla salute e dopo un’accurata visita medica venivano “messe a disposizione” di SS, soldati o detenuti politici.

Come già abbiamo sottolineato, moltissime sono le testimonianze scritte e filmate di donne e uomini sottomessi a donne ben più crudeli degli uomini; in particolare, molte di esse si scagliavano ancor più ferocemente sulle donne, quasi per esaltare il proprio ruolo di potere, per marcare in modo esasperante il fatto che esistessero secondo la concezione nazista individui di categorie diverse, in questo caso donne di serie A, che potevano permettersi di decidere sulla sorte altrui, e donne di serie B, destinate a soccombere per decisione di individui che si ritenevano superiori.

La durezza di queste donne stava dunque nel colpire le vittime non tanto fisicamente quanto emotivamente, attraverso l’umiliazione, un’arma potentissima che non lascia segni fisici evidenti ma rimane indelebile e permanente poiché logora e consuma l’animo dell’individuo.

fonte

Herta Oberheuser (Köln, 15 maggio 1911 – Linz am Rhein, 24 gennaio 1978) è stata un medico tedesco impiegato nel campo di concentramento di Ravensbrück. Accusata di esperimenti su esseri umani, fu processata e condannata al Tribunale di Norimberga per crimini contro l'umanità.
Trascorse l'infanzia a Düsseldorf, dove intraprese gli studi medici nel 1931. Proseguì gli studi a Bonn e si specializzò a Düsseldorf. Di famiglia modesta, dovette aiutarsi economicamente negli studi. Nel 1937 prese il dottorato in medicina e trovò il suo primo lavoro come assistente in medicina generica, sempre a Düsseldorf, conseguendo la specializzazione in dermatologia nel 1940.
Già nel 1935 aveva aderito alla federazione nazional-socialista della Bund Deutscher Mädel (BDM) e nel 1937 si iscrisse al NSDAP, nel NSSV e al Nationalsozialistische Deutscher Ärztebund (NSDÄB).
Nel 1940 rispose ad un annuncio su una rivista specializzata di medicina per un lavoro di assistenza nel campo di concentramento di Ravensbruck. Dopo una formazione di tre mesi, iniziò il lavoro come medico al campo agli inizi del 1941 fino al 1943 sotto la guida di Walter Sonntag e Gerhard Schiedlausky.
In qualità di assistente chirurgica del Dott. Karl Gebhardt lavorò nella clinica ortopedica di Hohenlychen, trasformata, durante la Seconda guerra mondiale, in un ospedale per i soldati delle Waffen-SS.
Partecipò agli esperimenti medici condotti su 86 donne (74 delle quali prigioniere politiche polacche nel campo di Ravensbruck) iniettando sulfamidici e benzina, conducendo esperimenti sulla rigenerazione di ossa, nervi e muscoli.
Uccise bambini con iniezioni di barbiturici, rimuovendo parti delle loro membra e organi vitali. Il lasso di tempo che intercorreva tra l'iniezione e la morte era approssimativamente dai 3 ai 5 minuti, con la persona perfettamente cosciente.
Ella eseguiva i più raccapriccianti e penosi esperimenti medici, provocando deliberatamente ferite ai soggetti. Per simulare quelle riportate dai soldati tedeschi in guerra, Herta Oberheuser infliggeva volutamente ferite nelle quali infilava corpi estranei come legno, chiodi arrugginiti, schegge di vetro, fango o segatura.
Herta Oberheuser fu imputata al "processo dei dottori di Norimberga" e fu condannata il 20 agosto 1947 a 20 anni di carcere. Fu rilasciata solo 5 anni dopo - nell'aprile del 1952 - per buona condotta, ed esercitò come pediatra in Germania, a Stocksee. Nel 1956 fu riconosciuta da alcuni sopravvissuti di Ravensbruck e nel 1958 le fu revocata la laurea in medicina; la Oberheuser presentò numerosi ricorsi ed ottenne il ripristino del proprio titolo di studio il 28 aprile 1961 anche se non riuscì più ad esercitare. Nel 1965 lasciò Stocksee e si trasferì nel distretto governativo di Bad Honnef; morì in una casa per anziani a Linz am Rhein.

Ilse Koch, nata Köhler (Dresda, 22 settembre 1906 – Aichach, 1 settembre 1967), era la moglie di Karl Otto Koch, il comandante del campo di concentramento di Buchenwald (dal 1937 al 1941) e di Majdanek (dal 1941 al 1943).
Conosciuta anche come la "strega di Buchenwald" (Die Hexe von Buchenwald), Cagna di Buchenwald (Buchenwälder Hündin) e "donnaccia di Buchenwald" (Buchenwälder Schlampe) dagli internati per il suo crudele sadismo e immoralità riguardo ai prigionieri, ha fama di aver preso dei “souvenirs” (tatuaggi) dalla pelle umana degli internati uccisi nei campi e che la sua tavola fosse imbandita con teschi umani.
Figlia di contadini, definita allegra e cortese, all’età di 15 anni lasciò la scuola per andare a lavorare in fabbrica. Poi iniziò il lavoro di bibliotecaria. Erano i tempi post-prima guerra mondiale, la Germania faticava a riprendersi dopo la sconfitta e la giovane iniziò a interessarsi all’ascesa del nazismo in Germania, diventando anche l'amante di numerosi soldati della SA.
La sua crudeltà iniziò nel 1936, quando diventò sorvegliante e segretaria presso il campo di concentramento di Sachenhausen, vicino a Berlino. Qui conobbe e sposò il comandante Karl Otto Koch.
Nel 1937 arrivò a Buchenwald, non come guardiano, ma come moglie del comandante: influenzata dal potere e dalla posizione del marito, iniziò a torturare gli internati. Nel 1941 divenne Oberaufseherin ("capo supervisore") del reparto femminile di sorveglianza del campo.
Karl Otto Koch nello stesso anno fu nominato comandante di Majdanek. Nel 1943 furono arrestati entrambi dalla Gestapo per malversazione e altri crimini.
Ilse fu imprigionata verso la fine del 1944 o inizio 1945 a Weimar. Nel 1945 suo marito fu condannato a morte dalle corte SS a Monaco di Baviera e giustiziato in aprile. Ilse fu rilasciata e andò a stabilirsi con la propria famiglia a Ludwigsburg. Fu nuovamente arrestata dalle autorità americane il 30 giugno 1945.
Processata dal tribunale militare di Dachau, fu condannata all'ergastolo nel 1947, pena poi commutata in 4 anni “perché non erano state fornite prove evidenti”.
Fu rilasciata però nel 1949 dal Generale Lucius Clay, comandante americano della zona tedesca, ma venne subito arrestata e processata dalla corte tedesca, viste le proteste che si erano scatenate per la sua liberazione: fu nuovamente condannata al carcere a vita.
Si impiccò nella sua cella della prigione di Aichach in Baviera dopo aver scritto una lettera al figlio.
Irma Grese era figlia di Alfred Grese, un impiegato membro del partito nazista dal 1937, e Berta Grese. Nel 1936 sua madre si suicidò bevendo acido cloridrico. Nel 1938, a quindici anni, la Grese lasciò la scuola, a causa di una combinazione tra una scarsa attitudine scolastica, atti di bullismo da parte dei compagni di classe ed un legame fanatico, disapprovato da suo padre, con la Lega delle Ragazze Tedesche (Bund Deutscher Mädel), un'organizzazione di giovani naziste.
Tra i tanti lavori saltuari che svolse, lavorò come assistente infermiera in un sanatorio delle SS per due anni e tentò invano di conseguire un diploma da infermiera. Lei stessa affermerà nel Processo di Belsen:
Sono nata il 7 ottobre 1923. Nel 1938 ho lasciato la scuola elementare e ho svolto per sei mesi mansioni agricole in una fattoria, dopodiché ho lavorato in un negozio a Luchen per sei mesi. Quando avevo 15 anni cominciai a lavorare in un ospedale di Hohenluchen, dove rimasi per due anni. Provai a diventare un'infermiera ma il Comitato del Lavoro non me lo volle permettere e fui mandata a lavorare in un caseificio di Fürstenburg. Nel luglio 1942 provai ancora a diventare un'infermiera, ma fui mandata al campo di concentramento di Ravensbrück nonostante le mie proteste. Rimasi lì fino al marzo 1943, quando fui mandata ad Auschwitz, dove lavorai fino al gennaio del 1945
Avendo completato l'addestramento nel marzo 1943, fu trasferita come aufseherin ad Auschwitz ed al termine dello stesso anno fu nominata "Supervisore Senior", il secondo incarico più autorevole nel campo, che rinchiudeva circa 30.000 donne ebree. Nel gennaio 1945 Grese tornò per breve tempo a Ravensbrück prima che i suoi incarichi terminassero definitivamente a Bergen-Belsen, dove fu "Direttrice dei Lavori" da marzo ad aprile. Fu catturata dall'Esercito Britannico il 17 aprile 1945, insieme ad altri membri delle SS che non erano riusciti a scappare.
Sadica e violenta, tanto da essere soprannominata "la bella bestia", si dedicò ad ogni genere di tortura e sevizia contro i prigionieri. Secondo la testimonianza di alcuni internati superstiti, uccise numerosi prigionieri, in altre occasioni slegò cani feroci contro di essi ed arrivò persino a stuprare alcune donne.
Processata dal Tribunale delle Forze Alleate di occupazione, venne condannata all'impiccagione come criminale di guerra nel 1946, a soli 22 anni, senza che la stessa, nell'istruttoria, avesse mai avuto segni di pentimento per il suo passato e di abiura verso la fede nazionalsocialista.
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Gertrud Elli Senff, oggi 92enne e sulla sedia a rotelle, guardia SS che nei campi di Majdanek (dove si stima che morirono 235mila persone), e Birkenau, amava giocava a fare Dio e picchiare i detenuti con grosse cinture di pelle.
Era lei a decidere chi destinare alle camere a gas di Auschwitz. Una donna «senza pietà», come l’hanno ricordata i sopravvissuti che hanno raccontato la loro testimonianza alle autorità di Ludwigsburg.
La sua presenza nel lager è stata provata dagli inquirenti, che hanno tracciato la sua carta d’identità da SS, la numero 321. Nel documento si legge «il possessore è autorizzato a portare armi», segno che non era una semplice esecutrice ma che prendeva parte alle decisioni.
Scoperta dal quotidiano tedesco Bild, non è mai stata processata. «Sapevamo che mia madre ha avuto qualcosa a che fare con Auschwitz  – ha spiegato la figlia - abbiamo provato a parlarne con lei ma la sua memoria non funziona più bene...».

Crudele e fanatica, Charlotte S. era addetta alla sorveglianza del campo di Ravensbrück e poi di Auschwitz .
«Aveva addestrato il suo alsaziano a odiare e mordere i prigionieri», ricorda una testimone dopo la guerra. «Eravamo obbligati a stare fermi per ore al freddo o al caldo soffocante e chi si muoveva veniva attaccato. Molti non sopravvivevano».
Rimasta incinta dopo una relazione con un uomo delle SS, lasciò il lavoro nel 1943. Riconosciuta colpevole e condannata da un tribunale comunista a 15 mesi di carcere per «maltrattamenti e furto nei confronti dei prigionieri a lei affidati», oggi ha 94 anni, e vive tranquillamente in Germania senza aver mai scontato la pena.


Stessa sorte per Gisela S., che ad Auschwitz era nota con il suo nome da ragazza Demmings, ed era addetta al controllo delle ‘celle in piedi’, cubicoli piccoli e bui dove anche 15 persone erano costrette a stare insieme senza potersi mai sedere. Gisela era solita lasciarli lì per giorni.
Profondamente legata alle idee naziste, interruppe la relazione con il dottore delle SS Frantz Bernhard Lucas solo perché aveva osato criticare gli esperimenti eseguiti sui prigionieri dall'‘angelo della morte’ Josef Mengele.
Imputata al processo contro le ex guardie di Auschwitz a Francoforte nel 1960, non venne poi condannata e oggi gli inquirenti sostengono sia troppo vecchia e fragile per essere portata in tribunale.


Sono tre delle 3.700 donne al servizio del Terzo Reich che alla fine della guerra sono riuscite a rimanere nell’ombra. Sorte comune alla maggior parte delle SS donne: solo in tre sono state condannate per genocidio. Oggi hanno oltre 90 anni e vivono senza aver mai scontato la loro pena.


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