È stata una pregevole opera collettiva dedicata a Rita Thalmann a darci modo di scoprire la questione della partecipazione delle donne all'attuazione del genocidio. Nel suo articolo introduttivo intitolato Femmes, féminismes, nazisme, ou: on ne nait pas innocent(e), on le devient ["Donne, femminismi, nazismo, ovvero: innocenti non si nasce, lo si diventa"], Liliane Kandel fa notare che, per quasi quarant'anni, le femministe e le storiche tedesche non si sono mai cimentate direttamente su questo tema. Sottolinea "l'innegabile difficoltà, per le storiche, le ricercatrici e le militanti femministe di affrontare quei problemi [...]. O, più precisamente, di affrontarli a quel titolo". Tra queste, tuttavia, una ventina hanno avuto il coraggio di porre le scomode domande circa "il grado di adesione e le modalità di partecipazione attiva o passiva, esplicita od occulta, sporadica o continuativa", delle complici del regime, invece di attenersi soltanto all'azione delle partigiane o alle vittime femminili del nazismo. In breve, hanno avuto il coraggio di entrare nelle "zone grigie" del femminismo.
In esse troviamo la messa in discussione dell'idea dominante "della non implicazione, della non compromissione delle donne nell'impresa nazista"; il modo in cui le femministe ariane rinnegarono la loro "sorellanza" con le amiche e militanti ebree; !e modalità di partecipazione, attiva e cosciente, delle donne ai diversi aspetti del sistema di espropriazione, spoliazione e delazione degli ebrei in Germania; e infine il caso delle donne direttamente e apertamente impegnate nel processo ideologico e materiale della persecuzione: le donne delle SS, le intellettuali e universitarie, come la biologa Agnes Bluhm, che appoggiava senza titubanza il regime hitleriano. In altre parole, "gli zelanti esecutori di Hitler" che contano anche tra loro un gran numero di donne. Insomma questo libro mette fine al mito dell'innocenza femminile così sintetizzato da Claudia Koonz: "Gli uomini erano nazisti e le donne innocenti".
Nicole Gabriel, che ha lavorato sulle delatrici a partire dal libro di Helga Schubert, Judasfrauen, ne propone un'interessante classificazione per tipi. Distingue, cioè, fra quelle che hanno denunciato "per civismo", per lealtà nei confronti del regime, quelle che hanno agito "per mettere ordine", per regolare a proprio vantaggio dei conflitti privati, e infine quelle che l'hanno fatto per seguire una passione o un istinto, ricercando nel fatto di nuocere ad altri un appagamento di carattere libidico. Su quest'ultima categoria vale la pena di soffermarsi, in quanto mette in luce una motivazione che in genere si vuol credere estranea alle donne: stiamo parlando del sadismo.
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In uno studio sulle donne SS, Gudrun Schwarz si domanda quale parte abbiano svolto nel processo di persecuzione e sterminio, a seconda che fossero mogli, figlie o sorelle di soldati delle SS, membri del corpo femminile delle SS, o sorveglianti di campo. Di queste ultime Schwarz ha trovato traccia negli archivi dì Coblenza. Nel 1945, il loro numero ammontava a 3.817, cioè il 10 percento della forza totale. Queste sorveglianti svolgevano servizio sia nei campi di concentramento femminili, sia nei campi di sterminio come Auschwitz-Birkenau e Lublin-Maidanek. I campi erano sempre diretti da un uomo SS, ma le sorveglianti esercitavano un'autorità diretta sulle detenute. Responsabili delle angherie e delle torture quotidiane nei confronti delle prigioniere, esse avevano il diritto, in servizio, di portare un'arma da fuoco, ed erano l'incarnazione della violenza. Secondo quanto ammesso nei processi da loro stesse, partecipavano alle operazioni di selezione. Ad Auschwitz o a Maidanek, tutte queste donne, temute per la loro brutalità e il loro zelo, "hanno collaborato direttamente a un sistema di oppressione e di morte [...] e contribuito alla riuscita del processo di sterminio". Una superstite del campo di concentramento di Gross-Rosen, chiamata a deporre come testimone, ha dichiarato: A picchiarci erano le civili tedesche. Le sorveglianti SS non avevano niente in contrario. Potevano picchiarci e torturarci finché volevano".
Gudrun Schwarz conclude laconicamente che, malgrado l'esistenza di una messe di documenti, le donne SS non sono mai state oggetto di ricerca specifica, "né nell'ambito degli studi sulle donne, né in quello delle ricerche sulle SS".
Fonte: Elisabeth Badinter - "La strada degli errori. Il pensiero femminista al bivio".
Nell’autunno del 1942 Elisabeth Willhaus, moglie del comandante del campo di concentramento polacco di Janowska, era solita sparare ai detenuti ebrei dal balcone della sua casa. Accanto, aveva la figlia di sei anni.
Lo scandalo di disumanità e di crudeltà del nazismo che negli ultimi anni ho potuto conoscere da vicino, incontrando diversi sopravvissuti ai campi di sterminio, fu opera anche delle donne.
La situazione era molto complicata. Una volta entrati nell’organizzazione nazista era difficilissimo e rischioso uscirne. E di eroi non ce ne sono molti», spiega. Andando invece ancora oltre, a quel livello oltraggioso del male per il male, del crimine privo di compassione, commesso non solo per mano maschile ma anche femminile da una, e molte, streghe di Buchenwald, nota: «Non cadiamo nella trappola della distinzione. Mai come in questo caso i fatti dimostrano che tra gli uomini e le donne non c’è differenza.http://27esimaora.corriere.it/articolo/quel-tragico-binomio-tra-nazismo-ed-emancipazione/
Le donne SS nei lager nazisti
SS. Sigla per definire le “Schutz-Staffeln”, letteralmente “scaglioni di difesa”. Questo era il nome dell’organizzazione militare del partito Nazionalsocialista tedesco, con compiti di polizia fino al 1945. Le SS erano dunque quel corpo militare che si occupava della gestione dei campi di concentramento; facevano parte di questo corpo di comando anche le donne.
Ma perché anche le donne?
Nella Germania del partito nazista molte erano le donne vicine a questa formazione politica, tanto che all’interno della “casa bruna”, il quartier generale del partito a Monaco, alcune di loro iniziarono a lanciare iniziative, stendere programmi e a crearsi un pensiero proprio sul nazismo. Tutto questo perché inizialmente erano poco considerate e lo spazio riservato al miglioramento delle condizioni femminili nella politica di Hitler era piuttosto limitato. Le donne, in particolare le mogli dei gerarchi nazisti, erano considerate alla stregua di oggetti da mettere in mostra nelle uscite pubbliche.
In generale, dunque, il ruolo della donna nella Germania di Hitler era davvero marginale e il suo compito era quello di occuparsi della casa e di generare e crescere figli forti; non le era riservato alcun ruolo all’interno della società.
Nel 1923 Hitler finì in carcere. Anni dopo avrebbe ammesso che molto era stato fatto proprio dalle donne per tenere unito il movimento. “Senza l’aiuto delle donne” – disse – “nel 1924, quando uscii di prigione, non avrei potuto riorganizzare il partito”.
Il nazismo si accorse però piuttosto tardi che per portare avanti il progetto di salvaguardia della razza ariana erano necessarie ragazze giovani e “idonee”, quindi tedesche, che generassero molti figli e che li facessero partecipare alle attività della Gioventù Hitleriana. Fu sotto questo aspetto che il ruolo della donna venne rivalutato; pian piano le organizzazioni femminili crebbero anche all’interno del partito. Nacquero così festival folkloristici, programmi radiofonici, corsi di preparazione alla maternità, iniziative, insomma, prettamente riservate ad un pubblico femminile.
L’attenzione improvvisa per le donne non diminuì però la misoginia degli uomini. Pur essendo esse una componente fondamentale della “fascia dei dominatori”, vivevano in ogni caso una condizione di sottomissione sessuale. L’umiliazione da parte del cosiddetto “sesso forte” non impediva loro di andare comunque orgogliose della propria superiorità nei confronti di Ebrei, Slavi, Zingari di ambo i sessi. Molto probabilmente fu proprio questa condizione di inferiorità inaccettata ed inaccettabile che spinse numerosissime donne ad entrare a far parte delle SS; entrando a far parte di un corpo militare esse avrebbero dovuto seguire un vero addestramento per imparare a gestire i campi nel modo più utile e “proficuo”. Sfruttando la loro posizione, esse erano in grado di esercitare un potere, qualsiasi potere su individui considerati inferiori, riscattando così, nei campi, la marginalità del loro ruolo nella società.
Molte sono le testimonianze che sottolineano come molto spesso le aguzzine fossero assai più crudeli e intransigenti degli uomini; a volte i prigionieri e le prigioniere tentavano di guadagnarsi qualche piccolo favore (un pezzo di pane, una coperta) facendo leva sui sentimenti di queste, ricevendo in cambio soltanto odio e crudeltà.
A volte le aguzzine sceglievano tra le prigioniere coloro che erano più belle e sane e le costringevano a prostituirsi nelle “baracche a luci rosse”, bordelli presenti all’interno dei campi riservati ai militari e ad alcuni internati che avevano per qualche motivo collaborato con le SS. Le prigioniere provenivano perlopiù dalla Germania nord-occidentale, in particolare dal campo di Ravensbrück, campo femminile gestito quasi esclusivamente da donne.
Ecco che le aguzzine non solo non aiutavano le proprie vittime, ma si rivalevano su di loro assai crudelmente e molto spesso facevano di esse delle vere e proprie schiave del sesso. Le donne venivano fatte scegliere dalle kapò in base alla bellezza, all’età e alla salute e dopo un’accurata visita medica venivano “messe a disposizione” di SS, soldati o detenuti politici.
Come già abbiamo sottolineato, moltissime sono le testimonianze scritte e filmate di donne e uomini sottomessi a donne ben più crudeli degli uomini; in particolare, molte di esse si scagliavano ancor più ferocemente sulle donne, quasi per esaltare il proprio ruolo di potere, per marcare in modo esasperante il fatto che esistessero secondo la concezione nazista individui di categorie diverse, in questo caso donne di serie A, che potevano permettersi di decidere sulla sorte altrui, e donne di serie B, destinate a soccombere per decisione di individui che si ritenevano superiori.
La durezza di queste donne stava dunque nel colpire le vittime non tanto fisicamente quanto emotivamente, attraverso l’umiliazione, un’arma potentissima che non lascia segni fisici evidenti ma rimane indelebile e permanente poiché logora e consuma l’animo dell’individuo.
Sono nata il 7 ottobre 1923. Nel 1938 ho lasciato la scuola elementare e ho svolto per sei mesi mansioni agricole in una fattoria, dopodiché ho lavorato in un negozio a Luchen per sei mesi. Quando avevo 15 anni cominciai a lavorare in un ospedale di Hohenluchen, dove rimasi per due anni. Provai a diventare un'infermiera ma il Comitato del Lavoro non me lo volle permettere e fui mandata a lavorare in un caseificio di Fürstenburg. Nel luglio 1942 provai ancora a diventare un'infermiera, ma fui mandata al campo di concentramento di Ravensbrück nonostante le mie proteste. Rimasi lì fino al marzo 1943, quando fui mandata ad Auschwitz, dove lavorai fino al gennaio del 1945
Gertrud Elli Senff, oggi 92enne e sulla sedia a rotelle, guardia SS che nei campi di Majdanek (dove si stima che morirono 235mila persone), e Birkenau, amava giocava a fare Dio e picchiare i detenuti con grosse cinture di pelle.
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