Alessandra Bramante
estratto dal VI capitolo (Ricerca Criminologica, pp 90-91) del saggio
Fare e disfare… Dall’amore alla distruttività - IL FIGLICIDIO MATERNO - Ed. Aracne, 2005
(…) Già negli anni ’70, in America, Philip Resnick osserva una netta tendenza a considerare la madre figlicida “malata” piuttosto che “assassina”. Nel 68% dei casi le donne finiscono in ospedale mentre solo il 27% scontano una pena detentiva in carcere[1]. Per i padri figlicidi la situazione sembra essere invertita, visto che solo il 14% viene inviato in manicomio contro un 72% che viene imprigionato o addirittura condannato a morte.
Marks e Krumar dall’analisi del loro campione[2] rilevano che le madri vengono mandate in carcere meno frequentemente rispetto ai padri, pur avendo commesso lo stesso reato di figlicidio. Secondo gli autori la motivazione potrebbe essere la percezione che i padri facciano uso di metodi più violenti per commettere il reato[3]. Le percentuali sono 84% dei padri e 19% delle madri che vengono puniti con il carcere per il reato commesso.
I campioni analizzati da D’Orban[4] e Cheung[5] parlano di percentuali ancora più basse, attorno al 10%, di donne in carcere in seguito a figlicidio, la maggior parte ottiene la libertà condizionale o va in ospedale psichiatrico.
Anche un altro studioso della Sydney University, Andrei Wilczynsky, sostiene che la giustizia criminale tratta molto diversamente, in ogni fase del processo, le madri che uccidono i loro bambini dai padri che commettono il medesimo reato, seguendo il principio che i padri sarebbero “cattivi” e “normali” mentre le madri sarebbero “matte” ed “anormali”[6]. Secondo l’autore tali distinzioni e la diversità di trattamento devono essere considerate ingiustificabili (…)
Note:
1. Meyer C.L., Oberman M. – Mother who kill their children, New York University Press, New york, 2001
2. Marks M.N., Krumar R. – Infanticide in Engand and in Wales , Medicine, Science and Law, 33, 329-339, 1993
3. Gli autori la definiscono “percezione” in quanto si tratta di una sensazione smentita dalla realtà dei fatti: le modalità dell’infanticidio materno contemplano recisione della carotide, strangolamento, annegamento, accoltellamento, rottura della calotta cranica, sfondamento della cassa toracica e fratture multiple conseguenti a percosse, oggettivamente dinamiche difficili da definire “non violente”
4. D’Orban P.T., Women who kill their children, British Journal of Psychiatry, 134, 560-571, 1979
5. Cheung P.T.K., Maternal filicide in Hong Kong, Medicine, Science and Law, 26, 185-192, 1986
6. Wilczynsky A., Child Killers, gender and the courts, British Journal of Criminology, 37, 419-436, 1997
estratto dal VI capitolo (Ricerca Criminologica, pp 90-91) del saggio
Fare e disfare… Dall’amore alla distruttività - IL FIGLICIDIO MATERNO - Ed. Aracne, 2005
(…) Già negli anni ’70, in America, Philip Resnick osserva una netta tendenza a considerare la madre figlicida “malata” piuttosto che “assassina”. Nel 68% dei casi le donne finiscono in ospedale mentre solo il 27% scontano una pena detentiva in carcere[1]. Per i padri figlicidi la situazione sembra essere invertita, visto che solo il 14% viene inviato in manicomio contro un 72% che viene imprigionato o addirittura condannato a morte.
Marks e Krumar dall’analisi del loro campione[2] rilevano che le madri vengono mandate in carcere meno frequentemente rispetto ai padri, pur avendo commesso lo stesso reato di figlicidio. Secondo gli autori la motivazione potrebbe essere la percezione che i padri facciano uso di metodi più violenti per commettere il reato[3]. Le percentuali sono 84% dei padri e 19% delle madri che vengono puniti con il carcere per il reato commesso.
I campioni analizzati da D’Orban[4] e Cheung[5] parlano di percentuali ancora più basse, attorno al 10%, di donne in carcere in seguito a figlicidio, la maggior parte ottiene la libertà condizionale o va in ospedale psichiatrico.
Anche un altro studioso della Sydney University, Andrei Wilczynsky, sostiene che la giustizia criminale tratta molto diversamente, in ogni fase del processo, le madri che uccidono i loro bambini dai padri che commettono il medesimo reato, seguendo il principio che i padri sarebbero “cattivi” e “normali” mentre le madri sarebbero “matte” ed “anormali”[6]. Secondo l’autore tali distinzioni e la diversità di trattamento devono essere considerate ingiustificabili (…)
Note:
1. Meyer C.L., Oberman M. – Mother who kill their children, New York University Press, New york, 2001
2. Marks M.N., Krumar R. – Infanticide in Engand and in Wales , Medicine, Science and Law, 33, 329-339, 1993
3. Gli autori la definiscono “percezione” in quanto si tratta di una sensazione smentita dalla realtà dei fatti: le modalità dell’infanticidio materno contemplano recisione della carotide, strangolamento, annegamento, accoltellamento, rottura della calotta cranica, sfondamento della cassa toracica e fratture multiple conseguenti a percosse, oggettivamente dinamiche difficili da definire “non violente”
4. D’Orban P.T., Women who kill their children, British Journal of Psychiatry, 134, 560-571, 1979
5. Cheung P.T.K., Maternal filicide in Hong Kong, Medicine, Science and Law, 26, 185-192, 1986
6. Wilczynsky A., Child Killers, gender and the courts, British Journal of Criminology, 37, 419-436, 1997
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Uno studio del governo degli Stati Uniti [UNITED STATES SENTENCING COMMISSION - November 2004] risalente a due anni fa ha portato alla luce una realtà allarmante su come le donne vengano "discriminate positivamente" nelle aule dei tribunali, vedendosi comminare pene più leggere degli uomini per lo stesso reato. Simili studi effettuati in altre nazioni sono giunti pressapoco alle stesse conclusioni, ad esempio è risultato che in Canada solamente il 15% delle donne condannate per un crimine vengono incarcerate. La Bureau of Justice Statistics (un dipartimento del governo USA che si occupa delle statistiche in ambito giudiziario) ha scoperto che in media le mogli che uccidono i mariti ricevono condanne di 10 anni più corte rispetto ai mariti che uccidono le mogli (6 anni di carcere per le mogli, e ben 16.5 anni per i mariti).
Ma c'è di più. Uno studio del 1994 del Dipartimento di Giustizia USA [Murder in Families - Dept. of Justice, July 1994] scoprì che le vittime della violenza domestica sono per il 55.5% uomini e il 44.5% donne. Quando l'assassino è il marito solamente nel 1.4% dei casi viene assolto, mentre quando l'assassina è la moglie la percentuale sale al 12.9%. Percentuali simili si trovano anche per quanto concerne la libertà condizionata: la ricevono l'1.6% dei i mariti che uccidono la moglie, e ben il 16.0% delle mogli che uccidono il marito.
Una simile disparità di trattamento avviene in tutto l'Occidente: quando è Lui ad uccidere la sentenza è sempre più pesante di quando invece è Lei ad uccidere (anche la condanna morale della società è più pesante quando è un maschio ad uccidere. Espressioni quali "mostro" e simili vengono sempre e solo affibbiate ai maschi assassini, e mai alle femmine assassine).
Il grafico sopra presentato mostra come ai maschi vengano in genere comminate pene più pesanti rispetto alle femmine (per lo stesso crimine). I motivi di tale disparità di trattamento sono molteplici e ognuno di essi meriterebbe ben più di due righe per esser compreso a fondo. Lo studio del Governo Americano, a commento di tale grafico recita:
L'analisi dei dati e dei casi giudiziari suggerisce che le attitudini paternalistiche dei giudici verso le donne possano risultare nel ritenere le donne più vulnerabili e degne di comprensione, e in definitiva meno responsabili degli uomini (Nagel & Johnson, 1994; Segal, 2000; Schazenbach, 2004).
Tutto ciò è senz'altro vero, ed a ciò si aggiunge la totale mancanza di empatia dei maschi nei confronti di altri maschi, i quali sono sempre visti come possibili rivali, e quindi da contrastare in ogni modo. Stessa cosa non si può dire dell' "empatia" (le virgolette son d'obbligo) strumentale che invece i maschi rivolgono nei confronti delle femmine, viste sempre come possibile "terra di conquista" (anche a costo di calpestare altri maschi).
A confermare che la tendenza nel progressivo e moderno Occidente è proprio quella presentata nello studio del governo Americano, ecco due recenti casi di cronaca dove l'uomo viene condannato, e la donna viene assolta (e riabilitata):
Nome: David Crespi
Età: 45
Nazionalità: USA (Texas)
Delitto commesso: omicidio delle sue 2 figlie (Tessara, 5, Samantha, 5)
Sesso: MASCHIO
Sentenza ricevuta: 2 ERGASTOLI
David Crespi soffriva di una forte depressione ed era affetto da disordine schizoaffettivo e da una psicosi maniaco-depressiva, due patologie devastanti dal punto di vista psicologico per una persona. Nonostante ciò, al mostro non è stato concesso nessun attenuante, e tantomeno si son messi in funzione quei classici meccanismi di solidarietà umana e comprensione che invece si attivano sempre quando ad uccidere i propri figli è una donna. Al mostro non può venir mai concesso il privilegio della "comprensione", ed ecco infatti puntuale la condanna a ribadire ciò.
Dopo il mostro maschio vediamo come la "Giustizia" ha punito qualche settimana fa una donna resasi colpevole dell'omicidio dei suoi figli:
Nome: Andrea Yates
Età: 42
Nazionalità: USA (Texas)
Delitto commesso: omicidio dei suoi 5 figli (Noah, 7, John, 5, Paul, 3, Luke, 2, e Mary, 6 mesi)
Sesso: FEMMINA
Sentenza ricevuta: ASSOLTA
Anche Andrea Yates soffriva di depressione e di psicosi post-parto. In America il caso di Andrea Yates è stato impugnato dalle potenti lobbies femministe che ne hanno chiesto l'assoluzione fin dall'inizio del processo, essendo la povera Andrea depressa (e donna...). Motivi più che sufficienti per rimettere in libertà una pluriomicida. David Crespi nel frattempo, il mostro, nonostante soffrisse di vari disturbi psichici e depressione era capacissimo di intendere e di volere (e maschio...).
Fabio Nestola
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